venerdì 17 gennaio 2014

L’infinito di Leopardi e il “caro” egoismo degli antichi




                                                                                                                                   Al mio amico F.D.

Sempre caro mi fu quest’ermo colle. Se Leopardi avesse scritto L’infinito in forma di canto amebeo, secondo la tecnica dei poeti bucolici, di botta e risposta tra due pastori, avrebbe forse aggiunto - se si considera la giocosa ironia che pervade tutta la sua opera – uno spiritoso chiarimento,
una battuta per bocca di un altro personaggio: tientelo ben caro quest'ermo colle!, un modo di dire ancora oggi comune in italiano: “tenersi caro qualcosa”, a indicare il possesso egoistico di un certo bene, di qualcosa che riteniamo bello.

Le riflessioni di Leopardi sul bello sono ampiamente documentate nello Zibaldone, così come quelle sul concetto di verità; e già negli anni dell'Infinito, prima e immediatamente successivi. Il bello è addirittura il contrario della verità: è semplicemente il falso (La bella letteratura, e massime la poesia … avendo per oggetto il bello, ch'è quanto dire il falso, perchè il vero … non fu mai bello”, Zib.1228 - giugno 1821); e tuttavia la verità, unico oggetto della filosofia, può stringere preziose alleanze col bello: la nuda verità può essere fonte di piacere (“Il vero certamente non è bello: ma pur anch'esso appaga o, se non altro, affetta in qualche modo l'anima, ed esiste senza dubbio il piacere della verità e della conoscenza del vero, arrivando al quale, l'uomo pur si diletta e compiace, ancorchè brutto e misero e terribile sia questo tal vero”, Zib. 2653 - dicembre 1822); così come fine della poesia è dilettare, e questo lo si ottiene tanto più efficacemente quanto più ci si serve di immagini vaghe, quando la lingua attinge ai concetti di grandezza, illimitatezza, vastità; come quando ci si richiama il deserto ("ermo, eremo, romito, hermite, hermitage, hermita ec. tutte fatte dal greco ἔρημος … Queste voci e simili sono tutte poetiche per l'infinità o vastità dell'idea”, Zib. 2629 - ottobre 1822); soprattutto poi se questi concetti sono adeguatamente contrastati in forma di ossimoro, di termini oppositivi, se si accosta ciò che non ha limiti a ciò che è limitato (“produce un contrasto efficacissimo e sublimissimo tra il finito e l’indefinito”, Zib. 1431 - agosto 1821). Di sicuro il bello è manifestazione sia soggettiva che oggettiva dell’egoismo, del proprio utile: la persona bella è arrogante perché gode di un privilegio (L'uomo insuperbisce del vantaggio che si accorge di avere sugli altri, e cerca di tirarne per se tutto quel partito che può”, Zib 1594-95 - agosto 1821) e anzi è tutto il sistema del bello a esserne interessato (il sistema del bello, come tutto il sistema della vita, si aggira sopra il perno, ed è posto in movimento dalla gran molla dell'egoismo, e quindi della similitudine e relazione a se stesso, cioè a colui che deve godere del bello di qualunque genere”, Zib. 1848 ottobre - 1821).

È indubbiamente il punto di vista degli antichi, ai quali Leopardi già a vent’anni, quando scrive L'infinito, è per lunga consuetudine avvezzo e non avrebbe quindi molto senso, nel suo caso, parlare di fonti dirette, quanto semmai di ruminazione, quasi in senso monastico: di testi che può aver letto e riletto anche attraverso citazioni o rimaneggiamenti. E ovviamente di rielaborazione poetica moderna di grandi temi dell’antichità. Rivangare, in un certo senso, le stesse cose, come direbbe, anche se in negativo, e a muso duro, Neottolemo a Odisseo nel Filottete: che mi vieni a rifare due e tre volte lo stesso discorso? (Δὶς ταὐτὰ βούλει καὶ τρὶς ἀναπολεῖν μ' ἔπη; - v.1238).

Così, riguardo a ciò che è caro e bello, già Teognide nelle sue elegie ricordava che

Le Muse e le Grazie, figlie di Dio, alle nozze di
Cadmo arrivate  cantarono che
"Il bello è caro, e ciò che non è bello non è caro"

Μοῦσαι καὶ Χάριτες, κοῦραι Διός, αἵ ποτε Κάδμου
 ἐς γάμον ἐλθοῦσαι καλὸν ἀείσατ' ἔπος,
'ὅττι καλόν, φίλον ἐστί· τὸ δ' οὐ καλὸν οὐ φίλον ἐστί' (vv.15-17).

Si trattava di un vecchio proverbio citato, anche nel Liside di Platone:

e può darsi, secondo l’antico proverbio, che il caro sia il bello.

καὶ κινδυνεύει κατὰ τὴν ἀρχαίαν παροιμίαν τὸ καλὸν
φίλον εἶναι (Lys. 216c).

Un passo che lo scoliaste chiarisce:

“che il caro sia il bello”: detto per via di coloro che scelgono il proprio interesse

τὸ καλὸν φίλον]  ἐπὶ τῶν τὸ συμφέρον αἱρουμένων (schol. Plat. l.c.).

E' difficile che Leopardi abbia visto a Recanati, prima di mettere giù Linfinito, l’edizione di Kuhner degli scolii a Platone, pubblicata esattamente nel 1800. Così come sembra improbabile che abbia avuto tra le mani l’Euripide delle Baccanti: la voce del coro, della moltitudine e del vago, nel terzo stasimo, che l’apertura dell’Infinito sembra riecheggiare almeno in un punto :

che cos’è ciò che è saggio, o quale più bel
dono dagli dei agli uomini
se non la testa dei nemici
schiacciare con mano potente?
Perché ciò che bello è “sempre caro”.

τί τὸ σοφόν, ἢ τί τὸ κάλλιον
 παρὰ θεῶν γέρας ἐν βροτοῖς
 ἢ χεῖρ' ὑπὲρ κορυφᾶς
 τῶν ἐχθρῶν κρείσσω κατέχειν;
 ὅτι καλὸν φίλον αἰεί. (vv. 877-81)  


L’isolamento di Leopardi nell’Infinito ricorderebbe invece più da vicino, nell'esperienza come nella lingua, proprio l'isolamento di Filottete, che soffre nella sua isola deserta. Ma dove Filottete descrive tragicamente, in uno stesso verso (1018), la sua condizione di storpio abbondonato (ἔρημον – ermo), non caro agli uomini (ἄφιλον), cioè non amato, senza amici, lontano dal consorzio umano (ἄπολιν) e morto ai viventi, e lancia maledizioni su Odisseo e Agamennone e Menelao, Leopardi oggettivizza queste sensazioni, che nascono dal male fisico e dall'isolamento, le proietta e le osserva all'esterno, in un'esperienza conoscitivo-poetica negli oggetti più immediati della sua contemplazione: è il colle, non lui, a essere abbandonato, desolato (ermo) e proprio per questo, per il fatto che gli è familiare, non può che essergli a quel punto caro (φίλον). Ma resta ugualmente una visione egoistica dell’esistenza, un interesse dell'ego, alimentato da ciò che esclude dal mondo, dalla siepe, così come Agamennone, Menelao e Odisseo avevano escluso Filottete dal consorzio umano (Leopardi farà solo un tardo riferimento al Filottete nello Zibaldone, in un pensiero del 1827, parlando del dolore che si prova lasciando uno stato penoso, e dove curiosamente  utilizza ancora il termine caro - il fine del quale (stato penoso) sia stato da noi desideratissimo, e ci sia attualmente oltremodo caro, Zib. 4282 - aprile 1827).

Un atteggiamento di godibile  isolamento, quello egoistico, discusso da Platone proprio in un altro passo del Liside, dove a essere caro più che il bello è ciò che è simile (è il noto similes cum similibus, a cui accennava anche Leopardi nel passo sul sistema egoistico del bello):

“e forse non ti sei già imbattuto in quegli scritti dei più saggi nei quali vengono dette queste stesse cose: che è necessario che il simile sia sempre caro al suo simile? E questi sono proprio coloro che discutono e scrivono sulla natura e sul tutto.”

οὐκοῦν καὶ τοῖς τῶν σοφωτάτων συγγράμμασιν ἐντετύχηκας ταῦτα αὐτὰ λέγουσιν, ὅτι τὸ ὅμοιον τῷ ὁμοίῳ ἀνάγκη ἀεὶ φίλον εἶναι; εἰσὶν δέ που οὗτοι οἱ περὶ φύσεώς τε καὶ τοῦ ὅλου διαλεγόμενοι καὶ γράφοντες. (Lys, 214b)


Lo stesso passo poi richiamato da Flavio Giuseppe nell’orazione contro Apione a sostegno di una visione integralista della religione:

“a tutti infatti il simile è sempre caro, (un tempio) comune a tutti di un dio comune a tutti”

φίλον γὰρ ἀεὶ παντὶ τὸ ὅμοιον, κοινὸς ἁπάντων κοινοῦ θεοῦ ἁπάντων (Ap. 2.193).


Tema – ciò che è caro e ciò che non lo è - comune a tutta la riflessione di  uno degli autori più amati da L., Plutarco: la riflessione su ciò che è amico o nemico. Ed è curioso come proprio Plutarco, nell’Iside e Osiride, dove rimanda alla Repubblica di Platone, dica che gli Egiziani davano al cane il nome Hermes non per il fatto che il cane fosse l’incarnazione di Hermes (il nome usato in senso proprio) ma perché come Hermes anche il cane, con la sua circospezione e astuzia e saggezza, sa distinguere il caro da ciò che non lo è, secondo ciò che conosce e ciò che non conosce (οὐ γὰρ τὸν κύνα κυρίως Ἑρμῆν λέγουσιν, ἀλλὰ τοῦ ζῴου τὸ φυλακτικὸν καὶ τὸ ἄγρυπνον καὶ τὸ φιλόσοφον, γνώσει καὶ ἀγνοίᾳ τὸ φίλον καὶ τὸ ἐχθρὸν ὁρίζοντος, φησιν ὁ Πλάτων, Is, 11

E se Hermes è il dio egoistico del guadagno, il cane (lo Zibaldone si apre proprio con l’abbaiare di un cane solitario) è quello che può trovarsi nella condizione migliore per riflettere poeticamente ma anche filosoficamente sul mondo, in un distacco in un certo senso cinico, se è sempre vero il detto che si è comunque soli come un cane. E sempre che questo lo si voglia, che questo sia caro, e se così piace, ἀλλ᾽ εἰ τοῦτο ὑμῖν φίλον, come sicuramente avrebbe detto un greco.

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