lunedì 10 febbraio 2014

Il giardino d'inverno

Posto dopo Il caffè avvelenato un seccondo brevissimo racconto dal Carnevale di una logoterapista, una serie di quaranta racconti metropolitani scritti a Londra nel 1994 quando ero ancora in fasce. Questo fu pubblicato in inglese su una rivista di Edimburgo.

 
Londra. Occhio di pavone a Isabella Plantation  - foto David Hawgood (Wikipedia)


 Un giorno qualsiasi della settimana, verso l'ora di pranzo, non meno di venti persone stavano per entrare nel
giardino coperto del Barbican: in quella specie di oasi artificiale, di ritiro in piena City monetaria, nella quale non si hanno se non belle conversazioni in un clima tra il tropicale e il ventilato.
   Apparvero per prime, secondo una prassi ben consolidata e forse avvertite da un cellulare, due anziane in uniforme, che si diressero veloci, con spirito di rivalsa, alle tre poltrone del corridoio a terrazza, dove un paio di teenager, ognuno con la ragazza in grembo, si risistemavano velocemente i jeans. Nella poltrona in mezzo, tra l’una e l’altra coppia, un tizio sui quaranta, in giubbotto e pantaloni chiari, sfogliava una rivista.
   Le due in uniforme erano del servizio volontario di sorveglianza; e una di loro, magrissima, iniziò a fare un gran bordello.
   “Sono cose disgustose!”, disse a voce alta, un tono quasi poliziesco, e a una certa età alcune persone dovrebbero soltanto vergognarsi!”, e fissava una vecchia che se ne stava seduta tranquillamente vicino all’entrata.
   La veccchia sembrava non aver sentito. Rovistava nella borsetta. Un attimo dopo, come se volesse rifarsi bella, tirò fuori un piccolo set da trucco. La magra si schiarì rumorosamente la voce, cosa che alla fine costrinse la vecchia a toccarsi graziosamente lo chignon e a guardarle.
   A ruota erano entrati un gruppo di ragazzi in tuta da ginnastica, sicuramente brasiliani, con lattine e tramezzini per il lunch, guidati da un nero, che risultò poi essere la guida, pure lui con la tuta. Era passato e sparito un tecnico del Barbican. Era arrivato un ventenne con un libro in mano. Infine si era infilato un gruppetto di cinque persone, due donne e tre uomini, vestiti professionalmente, ma alla maniera britannica, senza quell'eleganza tipicamente effeminata, uno dei quali indicava agli amici le varie palme e soprattutto i bellissimi enormi ficus benjamina in basso al di là della balaustra.
   Gli atleti stranieri - notate le due indignate che facevano tutto un loro scandalizzato discorso e visto il tono e come si agitavano - s’informano col nero, la guida, che fatto un segno con la mano disse che voleva sentire e si accostò.
   “Non si fuma qui”, fa una delle due a una delle ragazze colte in flagranza.
   “Problemi?”, intervenne il nero.
  “Problemi ne avrà lei e presto!”, fece la più magra. E si rigirò a rampognare le due coppiette. Alcuni ragazzi risero. La guida si scaldò, la chiamò vecchia megera (shut up, you old bag!), 'prugna rinsecchita', spolverò qualche altro ben assestato epiteto inglese e tagliando corto consigliò a tutte e due di andarsene a suonare nelle bande insieme a tutti quelli del Salvation Army e di altri gruppi simili.
   Si alzò l’uomo seduto tra le due coppie di ragazzini, quello con la rivista, e disse all’atleta di non esagerare. Seguì tutto un nuovo battibecco, che relegò le agguerrite volontarie in secondo piano, come a volte succede quando un imprevisto sposta il centro di un evento o lo distribuisce in tanti piccoli centri; e sembra essere un fatto tipico in ogni luogo: ognuno vuole dire la sua. Ma poi, per un movimento altrettanto tipico, l’ordine si ristabilisce, e con l’ordine le relative gerarchie. E può darsi che anche a lui, all’uomo con la rivista, che non si sapeva in effetti che ci stava a fare in mezzo a quei ragazzini che facevano il loro adorabile petting, le due ci avrebbero pensato loro, ma in un secondo tempo, e anche a lui - visto che comunque erano obbligate - avrebbero detto il fatto suo. L’uomo invece, detta qualche altra frase, fattosi pomposamente largo, se ne andò a leggere la rivista accanto alla vecchia all’ingresso.
   Come videro che il tipo non solo se ne andava, ma anche dove se ne andava, le due volontarie si fecero isteriche. E l’atleta, che aveva rovinato e incasinato tutto, da atleta diventa capro espiatorio. Poi, come anche i quattro teenager se ne vanno, una delle due, quella più robusta, si accascia su una poltrona e fa capire all’amica di avere qualcosa al braccio.
   “Potrebbe essere un infarto”, fa la vecchia al tipo con la rivista.
   “Come?”, fa lui, e guarda la donna seduta sulla poltrona. “Vado a vedere?”
   “Non è il caso”, fa lei. “Ho visto entrare uno che conosco bene, è un medico ... Vorrei, se non ti dispiace, restare ancora un po'.”
   “Stai quanto vuoi”, fa lui, “oggi non ho altri pazienti”. E entrambi si rimisero a osservare.
   L’altra custode, visto che l’amica languiva e muoveva appena il braccio, esortò il nero a fare qualcosa:
   “Adesso puoi farti veramente un nome!”, gli fa.
   E il povero atleta s’accovacciò. Presa la mano della donna le diede un paio di schiaffetti e quella svenne del tutto.
   C'è da dire che in questo tipo di giardini, quando l’aria non è satura perché ci pensa la previdenza umana, altre umidità possono condensarsi, che né gli inglesi, né i francesi né gli italiani sanno prevedere. E allora l’aria, potendo parlare, distillerebbe le proprie storie a gocce. Nella serra risuonò la voce della custode, che insultava il nero e che non capiva che se l’amica era stata gentilmente adagiata da alcuni ragazzi per terra con le gambe sollevate era a fin di bene. Così, dal gruppo dei quattro vestiti professionalmente, si avvicina il tipo che indicava i vari alberi ai colleghi.
   “Ma che fa?”, dice all’atleta che dava dei leggeri buffetti alla donna,  “ma che fa?”
   “Perché non da una mano invece?”
   Ma per favore! Si sposti, sono un medico.
   Il medico si china sulla poveretta, che s'era sentita male sul serio, le tira su la manica e le tasta il polso. Fissa la collega.
   “Quanti anni ha?”
   “Settanta ... settantacinque, e si guardò attorno meno battagliera.    
   “È fredda”, fece il medico. “È una questione di circolazione.”
   “Lo so”, fa lei, “ogni tanto le succede.”
   “Mi aiuti a toglierle la giacca.”
   Un paio di massaggi al polso e la donna riapre gli occhi. Il medico, che s’era un attimo distratto, si ricalò nella sua parte, nell’etica professionale:
   “A una certa età”, disse alla donna che era tornata a sedersi, “i collassi sono un problema. Lo eviti questo posto, non sente quanto è umido?”
   “Grazie”, fa lei, “mi conosco da sola!” E visto che l’altro insisteva, lo licenziò chinando bruscamente il capo.
   Se n’erano usciti tutti o quasi tutti. Le povere volontarie in uniforme, sedute una di fianco all’altra, guardarono un ragazzo che era venuto a sedersi a un metro da loro, un biondino. Una delle due chiese che libro leggeva. Lui glielo mostrò e lei disse che i bravi ragazzi si riconoscevano subito, ma che tutto dipendeva dal buon esempio, e che se il mondo andava a pezzi la colpa era di certe vecchie canaglie.
   Guardarono tutte e due l'anziana all’entrata, che faceva fatica a alzarsi e diceva qualcosa all’accompagnatore. Lui saltò in piedi e l’aiutò, e insieme se ne andarono così come erano entrati.

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