giovedì 5 giugno 2014

il cane filosofo. dal cinismo alle monadi informatiche






Non credo possa esistere un animale più maschio e filosofo del cane (anche e forse soprattutto quando è un esemplare femmina); e come ho già detto altrove, lo Zibaldone di pensieri inizia non a caso con l’immagine di un cane che
abbaia solitario nella notte (Leopardi, con la penna in mano, non iniziava né terminava mai niente a caso, nemmeno quando si divertiva a sbeffeggiare di fronte a un Ranieri esterrefatto, quella mediocrità del Tommaseo (che aveva Leopardi in antipatia) e riportava giocosamente le parole di Vincenzo Monti: “così come diceva il Monti, al Tommaseo fumano i tommasei”).

Soltanto per una vaga associazione di idee si è oggi inclini a chiamare cinico chi non risparmierebbe mezzi nella sua corsa disperata, ossessiva, nevrotica e quasi piscotica al possesso di beni materiali o chi non saprebbe astenersi, in una banale conversazione, da commenti al vetriolo, carichi di quell’apparente, sfacciata insensibilità all’etica, alla morale: in effetti cinico è diventato, nel linguaggio comune, molto banalmente, sinonimo di “cattiveria”, sicuramente per quella tendenza degli antichi cinici – sia che il nome richiami la nota sfacciataggine del cane, sia che venga dal Ginnasio Cinosarge, che comunque sempre  a cane rimanda – a disprezzare tutte le convenzioni umane per perseguire soltanto, tramite la virtù, la vera felicità.

Un discorso, questo, che apparterrebbe alla “fortuna” delle parole, che hanno un loro sviluppo e “progresso” e il cui uso potrà col tempo risultare totalmente indipendente dalle origini (così come ad esempio in filosofia il termine monade – lasciando da parte l'uso che ne facevano gli antichi nella definizione del principio da cui deriva il numero, o anche per indicare le idee in Platone – venne  usato da Giordano Bruno non in contraddizione col platonismo ma per indicare qualcosa di già differente dalle idee: il minimum,  la particella spirituale indivisibile e costituente di tutte le cose, il minimo comun denominatore spirituale, l’unità della materia spirituale inestensibile (e nello stesso senso sarà utilizzato dal neoplatonico More nell’Enchridion Meetaphysicum del 1679, quando conierà l’espressione monade fisica (ancora elemento unico primario spirituale); significherà poi per Leibniz non più il minimum comune a tutte le cose ma la sostanza spirituale, o meglio: il suo atomo spirituale, che non può essere uguale a un altro perché in natura nessun essere è uguale a un altro (insomma tante monadi quante sono le sostanze spirituali); e da Leibniz, Husserl lo prenderà e adatterà nella sua critica alle meditazioni cartesiane – e traduco direttamente dal tedesco: “Il mondo oggettivo, nella sua costituzione, richiede essenzialmente un’armonia di monade, e per essere più precisi: una costituzione armoniosa particolare per ciascuna monade, e conseguentemente una genesi  che si realizza con armonia nelle monadi particolari”. Dal che evidente,  dall'uso di quel "particolare", quanto ci si sia allontanati non solo da Pitagora, Aristotele e Platone ma anche dalla concezione a metà strada tra fisicismo e spiritualismo di Giordano Bruno, e dalle sue due opere de Monade e de Minimo, entrambe del 1591. E lasciamo perdere l’utilizzo del termine monade in matematica, nella musica, e in informatica, con l’uso che ne ha fatto più recentemente Eugenio Moggi in logica, quale elemento di calcolo (struttura di dati con stato associato) quando si voglia provare l’equivalenza di due o più programmi: usi che non ci azzeccano quasi più niente con le origini se non forse per il concetto di unità.

Ma l’immagine del cane al guinzaglio in “paziente” attesa del padrone perso in chiacchiere infinite con un conoscente appena incontrato per la strada, oppure del cane sdraiato per ore col muso poggiato a terra e lo sguardo immobile, sognante, molto prossimo a quella imperturbabilità che era non solo dei cinici ma anche degli stoici  e in generale delle scuole socratiche - lo denuncia animale filosofo per eccellenza. Animale maschio: tanto maschio quanto femmina è il gatto. Non per niente chatte – gatta – in francese sta a indicare volgarmente l’organo genitale femminile.

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