venerdì 27 giugno 2014

Il gioco del perché. Nota su Wittgenstein etico




La spiegazione scientifica è una tautologia. Non chiarisce assolutamente niente che non sia già osservabile nell'evento correttamente descritto; rende al massimo ragione, quantitativamente, di certi rapporti, permette attraverso una formula di misurarli. Ossessionata in effetti la scienza dall’eliminazione del garante esterno, di Dio, e dalla fuga della coscienza dalla trascendenza, e dovendo ripiegare su se stessa, servirsi soltanto degli elementi che costituiscono il fenomeno, che altro può fare se non spiegare il fenomeno attraverso il fenomeno stesso e incappare in un così elementare circolo vizioso che vedrebbe pure un bambino? la tanto ventilata oggettività va a farsi friggere, se è vero che per produrre oggettività, per definzione, c’è bisogno che gli elementi di un fenomeno siano osservati dall’esterno, ob-iectata, ripetutamente gettati davanti a sé, bisogna che non si auto-descrivano, che non siano autorefenziali, che non trovino riferimento necessario e sufficiente in se stessi. Dal che è anche ovvio, che chiunque si vanti di possedere una vera oggettività, non fa che introdurre, di necessità, un elemento trascendente all’oggetto osservato, cioè se stesso. In altri termini, quell’assoluto che vorrebbe negare

Inoltre, come dice Wittgenstein (che però mi pare non si accorge di cadere lui stesso nell’errore che critica) nelle sue Note sul Ramo d’oro di Frazer, è una qualsiasi spiegazione (non solo in ambito scientifico) a essere superflua e quindi inutile.

“Ich glaube dass das Unternehmen einer Erklaerung  schon darum verfehlt ist, weil man nur richtig susammenstellen muss, was man weiss, und nichts dazusetzen, und die Befriedigung, die durch die Erklaerung angestrebt wird, ergibt sich von selbst”.

"Credo che l’impresa di dare una spiegazione è già per questo motivo sbagliata, perché bisogna comporre soltanto ciò che si sa, e non aggiungere altro, di modo che la soddisfazione che si cerca tramite la spiegazione, si dia da sé".

Insomma Wittgestein, seguendo se stesso, avrebbe dovuto limitarsi al solo enunciato: ogni spiegazione è sbagliata, "non aggiungere altro", non dare nessuna spiegazione.

In più, la spiegazione, a differenza della composizione corretta degli elementi che di un fenomeno si conoscono e del semplice prenderne atto, non dà nessuna soddisfazione, e questo è tanto vero che fin dalla notte dei tempi il bambino non si ferma mai a un primo perché ma inizia a filare un'infinita interminabile catena. Il bambino domanda: perché, papà, questo fa questo? E il padre: perché è così e così. E il bambino: e perché è così e così?, e il padre: perché è collì e collì. E il bambino: e perché è collì e collì? E il padre: perché è collà e collà. E si andrebbe avanti veramente all’infinito se il padre a un certo punto non si mettesse a urlare.  Il meccanismo è ovvio: la spiegazione, ad ogni gradino ("every step of the way will find us with the cares of the world far behind us", dice la voce innamorata di Louis Armstrong), lascia il bambino insoddisfatto. Soltanto quando il bambino avrà un quadro più completo, una composizione degli elementi acquisiti, a quel punto (si spera) sarà adulto, non avrà più voglia di fare domande, gli basterà quello che vede, troverà fastidioso che gli si chieda il perché di qualcosa e ancora più fastidiose e inutili le risposte. Ma toccherà a lui, a quel punto, rispondere al figlio. Prendere nuovamente parte, a ruoli invertiti, al gioco perpetuo del perché.

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